giovedì 5 gennaio 2012

Poco spazio per i giovani. Così uccidiamo il nostro futuro.

Viviamo un'epoca di profonda crisi economica caratterizzata da una lentissima crescita del nostro paese e da elevati tassi di disoccupazione e occupazione precaria. I dati ci raccontano di giovani laureati che sempre più frequentemente oltrepassano le frontiere italiane alla ricerca di una realizzazione professionale che permetta loro di valorizzare percorsi di formazione lunghi e fitti di sacrifici.
Dall'estero sembra che questo fenomeno sia osservato con attenzione tanto che il Financial Times nota che “c' è un paese europeo che ha caratteristiche da mondo arabo: un'economia sclerotica, vita civile danneggiata da corruzione e malavita, crescente scontro generazionale. È controllato da una classe gerontocratica blindata in politica ed economia, che costringe i giovani migliori a espatriare per l'Europa. Questo paese è l' Italia. Una democrazia, quindi il concistoro dovrebbe essere rimpiazzabile. Eppure non è mai così: più elezioni ci sono meno sembra cambiare”. L'Economist a sua volta sostiene che il talento e il merito contano poco per avere un posto di lavoro in Italia con la conseguenza che i laureati italiani non vedono l'ora di emigrare.
Come se tutto ciò non bastasse a generare preoccupazione c'è dell'altro. I dati di Almalaurea ci dicono che chi si è laureato nel 2009 se è rimasto in Italia un anno dopo riceve 1.054 euro al mese, se è fuggito 1.568. E più passa il tempo, più la differenza si fa pesante: un laureato del 2005 rimasto ha una busta paga media inchiodata a 1.295 euro, l’emigrante nel frattempo è arrivato a 2.025 euro. Oltre 700 euro di differenza. Da una ricerca di Italia Lavoro riguardante il titolo di studio degli italiani scopriamo che, per quanto riguarda i cittadini fermatisi alla licenza media si evidenziano valori particolarmente elevati e pari a circa al doppio della media nazionale, in Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia.
Ne consegue che, buttando un occhio alla nostra Sardegna, lo scenario è questo: pochi laureati e diplomati rispetto alla media nazionale e molti tra i laureati costretti a emigrare per raggiungere uno sbocco professionale soddisfacente. Quale sarà dunque il futuro che stiamo preparando per le generazioni prossime? E sopratutto per quale motivo oggi i giovani che si immettono nel mercato del lavoro trovano così pochi spazi ad accoglierli, sopratutto se laureati e qualificati? Di recente Mario Draghi, neo presidente della BCE, si è espresso sull'argomento. Parlando dell'Italia ha detto che “vige il minimo di mobilità a un estremo, il massimo di precarietà all'altro. È uno spreco di risorse che avvilisce i giovani e intacca gravemente l'efficienza del sistema produttivo. I salari di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro in termini reali sono fermi da oltre un decennio su livelli al di sotto di quelli degli anni Ottanta. La recessione ha reso più difficile la situazione e il tasso di disoccupazione dei giovani supera il 30%".
Il minimo di mobilità ad un estremo (ovvero chi è in età avanzata e tende a conservare la propria posizione) e il massimo di precarietà all'altro (i giovani appunto). Proviamo dunque ad analizzare le conseguenze di questo. Più che ad una alleanza generazionale, più che ad un sereno e sempre più costruttivo passaggio di consegne, stiamo assistendo a una guerra fredda tra generazioni. Le nuove generazioni considerano un lusso alcuni passi fondamentali della crescita umana e cristiana come il possedere una casa propria e la possibilità di creare una famiglia e crescere dei figli. Le coppie in cui uno dei due coniugi dispone di un contratto a tempo indeterminato hanno difficoltà a raggiungere la soglia reddituale richiesta dagli istituti di credito per la concessione di un mutuo, e qualora la raggiungessero molto probabilmente non potrebbero far fronte all'impegno finanziario richiesto per il saldo di una parte dell'immobile da acquistare, il cosiddetto anticipo per la casa. Ma, l'abbiamo visto, la norma è un'altra, la maggior parte delle coppie giovani infatti dispone di contratti a tempo determinato, cosa che complica ancora di più l'accesso al credito. E quindi si rimanda tutto, il matrimonio, la prospettiva di avere dei figli, il momento della serenità.
Cresce dunque la frustrazione tra le nuove generazioni e la fiducia nel futuro è costantemente minacciata, con devastanti conseguenze nell'approccio alla vita e alla progettazione del futuro. Una considerazione a parte merita il rapporto dei giovani con l'attuale classe dirigente. Corruzione, superficialità, assenza di tensione morale, conservazione delle posizioni di potere, interessi economici, egoismo, tutti elementi che spesso la cronaca associa ad esponenti della classe dirigente. Il giovane, in particolar modo se brillante e capace, in alcuni ambienti è visto come una minaccia e non come una preziosa risorsa. Nascono anche all'interno degli organismi politici fazioni e movimenti che si impegnano affinché ci possa essere quel rinnovamento necessario alla società civile.
Vediamo cosa ci dice al riguardo la Dottrina Sociale della Chiesa: Il lavoro è un diritto fondamentale ed è un bene per l'uomo: un bene utile, degno di lui perché adatto appunto ad esprimere e ad accrescere la dignità umana. La Chiesa insegna il valore del lavoro non solo perché esso è sempre personale, ma anche per il carattere di necessità. Il lavoro è necessario per formare e mantenere una famiglia, per avere diritto alla proprietà, per contribuire al bene comune della famiglia umana. La considerazione delle implicazioni morali che la questione del lavoro comporta nella vita sociale induce la Chiesa ad additare la disoccupazione come una «vera calamità sociale», soprattutto in relazione alle giovani generazioni. E proprio il carattere di necessità che ci deve far riflettere, necessità, tra le altre cose, a formare una famiglia. Il valore stesso della famiglia è dunque minato dall'assenza di lavoro o dal lavoro precario o dall'esigenza, non il desiderio, di emigrare per una professione in linea con le proprie competenze e aspirazioni.
Il cristiano si deve interrogare, e ancora una volta combattere contro i propri limiti. Troppo spesso la nostra natura ci porta ad applicare quella che possiamo definire la “politica dell'orticello”. Si tratta di un atteggiamento che ci induce a preoccuparci esclusivamente del nostro orticello, del fatto che i semi da noi piantati crescano bene. Al massimo possiamo condividere un po' della nostra acqua per innaffiare l'orticello attiguo del nostro vicino. Questo tipo di atteggiamento si traduce poi nella nostra preoccupazione di vedere “sistemati” i nostri figli, ma è una visione tremendamente miope. E prima lo si capisce meglio è. Così facendo infatti viviamo a testa china concentrando il nostro sguardo esclusivamente entro i confini del nostro appezzamento di terra, trascurando però che esso è inserito in un ecosistema molto più vasto e complesso. Nostro figlio, per quanto “sistemato”, vivrà i suoi giorni, amerà, pregherà, spererà, riderà, piangerà, interagendo con gli altri, muovendo i suoi passi all'interno di una società e, al contrario di una pianta, si muoverà, avvicinerà altri esseri umani e la sua formazione come individuo non potrà prescindere da queste interazioni. Non ha alcun senso lasciare i nostri figli con un ricco conto in banca in una terra povera, perché inesorabilmente sarà povero anche lui.

Il momento richiede una forte presa di coscienza da parte di chi ricopre posizioni di potere o di responsabilità. Politici, imprenditori, vescovi, insegnanti, genitori, per tutti è il momento di farsi carico di una circolo vizioso che deve essere interrotto. I giovani sono il futuro della nostra società, della nostra terra, e uccidendo il giorno di oggi abbiamo già ucciso in parte quello di domani. Dalla Spagna i ragazzi urlano la loro indignazione. In Italia lo fanno già da tempo, basta solo ascoltare e rimboccarsi le maniche. Questo è il momento.

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